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Carlo.Giabbanelli
il 8.8.2006



memory padre/father
noi e gli altri - epico2
memories figli/sons
Non ci rimarrà altro

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riferimento temporale/time reference : tra il 79 e l'80


A proposito di epica

Verso il 1978-79 scoprii il teatro di strada al festival di Santarcangelo di Romagna e mi ci buttai a capofitto. Avevamo (c’era anche Francesco) uno spettacolo che si chiamava “Gargarismi e pere cotte”: andavamo per paesini con fisarmoniche, violini, trampoli e burattini a fare un gran casino. Dopo un tot di repliche e di grande divertimento personale, mi chiesi se quell’esperienza avesse un senso più vasto. Mi risposi, sforzando il cervello come quando si gonfia un palloncino nuovo, che la nostra era una “testimonianza”. Cioè dimostravamo in pratica che si poteva vivere in ben altro modo che lavorare e guardare la TV.
Credo che ci sia dell’epico, nel senso proposto da Francesco, in questa straordinaria cazzata. Mi immaginavo cioè di star costruendo un mondo diverso o forse (crepuscolarmente, visto che eravamo ormai in pieno riflusso) di viverlo io in prima persona in faccia agli altri che erano così ottusi da non voler cambiare. Nello stesso periodo e con le stesse motivazioni c’era chi sparava: si sentivano epici anche loro, probabilmente.

L’epica parla di gesta di eroi ed è riconosciuta da un gruppo umano come parte fondante della propria identità e della propria visione del mondo insieme ai miti, ai riti etc... Ma questa è una definizione esterna, antropologica. Ogni epica è assoluta: non percepisce i limiti della propria validità, del sistema di cui fa parte.
Molto spesso gli eroi sono giovani maschi perché ignoranti e stracolmi di testosterone che li rende ottusamente aggressivi. Non sanno quanto vale la loro vita e quella degli altri, credono che il mondo sia il loro microcosmo con i piccoli valori che hanno assorbito nei pochi anni che hanno vissuto; in più sono spesso disponibili ad eliminare (mentalmente o fisicamente) tutto ciò che non conoscono, comprese molte parti di se stessi.
Faccio fatica a considerare positivamente qualcosa di determinato dall’ignoranza del mondo, delle sue dimensioni reali e delle proporzioni relative (anche Francesco fa un accenno a questo lato della questione).

Crescere, invecchiare, per me è stato anche invece un esercizio continuo di decentramento, di contestualizzazione delle esperienze. Per inciso credo che questo non aiuti a diventare famosi: spesso, nel successo, c’è una buona dose di delirio, di attitudine paranoide che deforma prospetticamente la percezione di sé e degli altri e che induce a non vedere gli ostacoli e la complessità del reale. (La mia mano è vicina, quindi molto molto più grossa dell’elefante che mi sta venendo addosso: lo prendo per la proboscide e lo faccio volare.)

La nostra (45-55 di sinistra) è stata una generazione paranoide, con una singolare inclinazione ai miti, ai riti e all’epica. Credevamo di poter fare la rivoluzione, se non sbaglio; credevamo di rappresentare tutti i giovani, come minimo, se non tutti gli oppressi. Pensavamo di essere il principale obbiettivo della repressione mondiale, dal ‘68 in poi. Eravamo grandiosi, a modo nostro, eppure non abbiamo avuto un gran successo come generazione. Forse ce la raccontavamo un po’ troppo; forse la mania di grandezza funziona solo a livello individuale.

Una delle prime lezioni di realtà le ebbi al militare, nel 1980. All’epoca ero un lettore abituale di Linus: mi rendevo conto che faceva un po’ élite, ma rimasi esterrefatto quando scoprii che nella mia caserma, su quattrocento ragazzi che eravamo, solo cinque o sei lo leggevano e solo io lo compravo. Conobbi per la prima volta dei ventenni analfabeti – almeno il triplo dei lettori di Linus - e imparai che, al di là della retorica egualitaria, era un grosso problema se nello scaglione dei “borghesi” (cioè quelli che si congedavano e avevano il potere assoluto sui commilitoni) c’erano troppi meridionali. Difficile continuare a pensarsi rappresentativi di alcunché.





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