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Carlo.Giabbanelli
il 24.2.2006



memory padre/father
il primo giorno di scuola 2

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riferimento temporale/time reference : primi anni sessanta


Penna e calamaio

Ho una spalla più curva dell’altra; è la destra. Quando ho una penna in mano mi accorgo di tenerla contratta, spostata in avanti. Sto tutto teso. Forse sarà perché ho imparato a scrivere con il pennino. Non sono tanto vecchio, ma il mio maestro era piuttosto conservatore in queste cose. Altre classi erano già alla biro e io invidiavo quei compagni fortunati perché il pennino era un vero tormento. Bisognava intingere continuamente la penna, dosare convenientemente la pressione della mano, altrimenti non si scriveva oppure si schizzava inchiostro da tutte le parti. Inoltre si doveva tentare di scrivere in bella grafia, con gli spessori nelle aste discendenti e i tratti fini in quelle ascendenti.
In agguato c’erano sempre le patacche: bastava un movimento brusco, oppure un carico eccessivo della penna e piombavano goccioloni neri e spessi come budini: insetti tondi con tanto di gambette laterali che se non li vedevi subito magari ci passavi sopra la mano e allora diventavano scie orribili, comete nere sul foglio bianco.
I pennini erano oggetti affascinanti. Li facevano in un sacco di forme differenti e questo stimolava i meccanismi della moda e dell’identificazione di gruppo; il modello più diffuso era quello a forma di foglia; scriveva un po’ grosso ma era robusto e abbastanza morbido. Mi ricordo che a un certo punto comparve un pennino dorato a forma di Torre Eiffel. All’inizio mi pareva che scrivesse benissimo, ma poi mi sa che si rivelò tutto fumo e niente arrosto. C’era anche un borsino dei pennini; ce li scambiavamo come le figurine.
Le penne erano di legno o di plastica ma tutte, dico tutte, avevano la caratteristica di essere mordicchiate ferocemente in punta, tenero sintomo di soddisfazioni ancora orali e di denti nascenti.
Poi c’era la carta-suga che serviva ad asciugare le pagine appena scritte; quei fogli spessi e pelosi avevano anche la funzione salvifica di prosciugare (adeguatamente inzuppati di saliva in un angolo) le grasse patacche di cui sopra.
La mia scuola era nuova di zecca. Ci eravamo trasferiti quando io facevo la seconda. Anche i banchi erano nuovi: banchi singoli, col ripiano di formica blu, molto belli. In comune con quelli vecchi che avevamo appena lasciato - banchi doppi di legno col ripiano inclinato – avevano però il calamaio incorporato in alto a destra. Strana mescolanza di antico e moderno, l’Italia degli anni sessanta.
Tutte le mattine passava il bidello, il Baglioni, un uomo di mezza età con la faccia tonda, i capelli corvini lisciati all’indietro, la pelle olivastra dalle occhiaie nere come la Banda Bassotti, e riempiva i calamai versando inchiostro da un bottiglione.
Succedeva raramente, ma quando si rovesciava un banco partivano delle secchiate micidiali.
Contro le insidie dell’inchiostro avevamo i grembiuli neri (col fiocco blu e il colletto bianco). Lì ci nettavamo le dita perennemente macchiate, ormai quasi tatuate. Le femmine, poverette, dovevano portare il grembiule bianco col fiocco rosa. Immagino che l’idea fosse che dovevano dimostrarsi più pulite di noi maschi, anzi immacolate. Tipo le infermiere, insomma.
Eravamo separati dalle femmine: classi diverse, addirittura piani diversi. Dopo, valle a capire le donne, quando ce n’è bisogno e tu non ci sei abituato!
Io la prima fidanzatina l’ho avuta a cinque anni: si chiamava Silvia e aveva un faccino delizioso. Di lei mi è rimasta una sola foto fatta una domenica mattina (si capisce dal mio vestito da festa). Ci teniamo per mano e io sono molto sicuro di me. La seconda fidanzatina l’ho avuta 14 anni dopo, una volta diplomato.






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