Memoria spedita da/Memory sent by: stefano.lasagna il 8.7.2005
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Memories è un tentativo di interpretare esteticamente le
nostre memorie e la memoria in generale.
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riferimento temporale/time reference : 4 ,1990
Borneo 1990
N.d.A.: Questo è un estratto da un libro-diario di viaggi che ho scritto un paio d'anni fa e che ovviamente non riesco a dare alle stampe. Si intitola "Where you from, Mister?". Se a qualcuno interessasse... Buona lettura, grazie per l'ospitalità e mille scuse per la lunghezza del contributo.
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Kalimantan (Borneo Indonesiano), 1990. Sul fiume Mahakam.
Quella sera sul barcone io e Roberta viviamo alcune esperienze fantastiche: un tramonto di cui non ho mai più visto l’uguale, con il sole che tinge il cielo di tutte le sfumature del rosa e del viola, e tutto si rispecchia nel fiume calmo; le mangrovie ai lati che mormorano sommesse sotto la brezza del crepuscolo; riusciamo persino a vedere due inie, rarissimi delfini di fiume – la cui esistenza era stata rivelata solo pochi anni prima da una spedizione del mitico Comandante Cousteau – che se la spassano di fronte alla prua della nostra imbarcazione. Una serata splendida. Tant’è che – dopo quindici giorni vissuti con lo stress da smarrimento/rapina e quindi con tutti i nostri beni sparpagliati giorno e notte per il corpo in borse, borsette, portafogli minimali e buste di stoffa spillate addosso – decidiamo di comune accordo di sederci sul bordo del barcone a guardare scorrere il fiume, e per stare più comodi mettiamo tutti i nostri valori dentro la borsa fotografica, che non abbandono mai. Detto, fatto; e ci adagiamo comodi sul ponte a goderci il fresco della sera.
Cadiamo addormentati per non più di un’ora, durante la quale il barcone effettua le solite fermate a richiesta lungo il corso del fiume. Mi risveglio di colpo e tasto istintivamente alla mia destra per assicurarmi che la borsa fotografica sia sempre al suo posto. Oh oh… sento solo le umide assi del ponte. L’adrenalina mi schizza dietro agli occhi ed in un secondo sono in piedi, sveglio mia moglie gridando “Dove cazzo hai messo la borsa, stavolta?” e dallo sguardo che mi restituisce capisco che non lo sa, ma che comincia perfettamente ad intuire che cosa è successo: qualcuno ci ha osservato mentre mettevamo portafogli e marsupi vari nella borsa, ha visto che crollavamo addormentati ed alla prima fermata ha deciso di rischiare: ha preso la borsa e si è dileguato nel buio.
Corro dal capitano, gli faccio segno di fermare il barcone, e prima ancora che attracchi comincio a svegliare tutti i passeggeri intorno a me ed a guardare brusco tra le loro borse, sotto i sedili e dentro le ceste che portano con loro; ovviamente non trovo niente. Mi spiego a gesti e finalmente un passeggero mi dice “Polis”, indicandomi un casolare illuminato dove – mi par di capire – abbia sede un posto di polizia. Mi ci reco correndo, accompagnato dal capitano; la denuncia richiede circa tre ore, in quanto io non parlo che poche parole di indonesiano ed i miei interlocutori neppure una di inglese; bene o male, alla fine ho nelle mani – ed è ahimé l’unica cosa… - una denuncia ufficiale che ricapitola il maltolto: 1.000 dollari americani, 300.000 rupie indonesiane, una telecamera Sony, una macchina fotografica Canon con tre obiettivi originali, due carte di credito, la mia patente di guida, i nostri due passaporti e – dulcis in fundo – i biglietti aerei da Bali a Genova via Jakarta e Francoforte.
Ci troviamo nel profondo Borneo, a dodici ore di navigazione dal primo villaggio “civile” e a tre ore di volo da Bali; non abbiamo documenti, né biglietti aerei né denaro di alcun tipo: frugandomi in tasca trovo un biglietto da 100 rupie, cioè circa 70 lire al cambio di allora.
Mia moglie siede catatonica sul bordo della barca, scuotendo la testa e continuando a piangere; il capitano – imbarazzato – mi chiede se può riprendere il viaggio; senza parole davvero, scuoto la testa affermativamente.
Al mattino sbarchiamo a Tenggarong, all’ingresso del Parco Nazionale, e mi precipito nell’ufficio dei Ranger dove, all’andata, abbiamo compilato il registro con le nostre generalità; il guardiano si ricorda di noi, legge la denuncia scrollando la testa, ci esprime tutto il suo dispiacere, chiede scusa a nome del suo popolo e si informa su cosa può fare per aiutarci. Gli dico che il mio volo di ritorno per l’Italia parte da Bali, dove tra l’altro è presente un Console Onorario del nostro Paese, e che se riusciamo a raggiungere Denpasar saremo ad un ottimo punto: riusciremo infatti ad ottenere il duplicato del passaporto ed un po’ di denaro, con il quale pagheremo il vitto e l’alloggio nonché le copie – penale compresa - dei biglietti aerei.
Il Ranger annuisce e comincia a scrivere una lettera lunghissima su quella che crediamo sia la sua carta intestata personale; finite di stendere le sue memorie, chiude la lettera in una busta e chiama un suo collega, che ci scorta fino ad una jeep della Polizia, dove veniamo fatti accomodare. L’automezzo parte rombando e ci deposita – un’oretta di scossoni dopo – a Samarinda (quasi-capoluogo della regione), di fronte ad un’agenzia viaggi; il poliziotto alla guida della jeep ci fa segno di entrare e di consegnare la lettera al titolare dell’agenzia.
Eseguiamo, piuttosto sconcertati; il proprietario dell’agenzia legge la lettera con attenzione, mi chiede in un inglese più che decente di poter vedere la denuncia; la esamina attentamente scrollando la testa, sospira sconsolato, si volta verso la sua segretaria e le parla a lungo in indonesiano. Nell’accozzaglia di parole mi sembra di decifrare una serie di numeri e la parola “Denpasar”; veniamo fatti accomodare e ci viene offerto del the. Mia moglie è sempre più catatonica (meglio che il solito umore incazzoso, comunque…): guarda di fronte a sé scrollando la testa e non profferisce verbo.
Dopo una decina di minuti, il titolare si avvicina e ci consegna una busta: al suo interno ci sono due biglietti aerei per Denpasar (la partenza è da Banjarmasin, un paese ad un centinaio di chilometri a Sud di Samarinda, ma va benissimo così), un’altra lettera di presentazione per chiunque ci dovesse richiedere referenze e 80.000 rupie (circa 60.000 lire ai tempi, comunque una cifra in grado di garantirci tre-quattro giorni di vitto e alloggio, e peraltro il valore di uno stipendio mensile per un impiegato medio, in Indonesia). Rinnova le sue scuse per ciò che abbiamo dovuto sopportare dal suo popolo, ci assicura che non tutti gli indonesiani sono così e ci chiama un taxi per accompagnarci alla stazione degli autobus dove potremo partire per Banjarmasin: l’aereo è infatti prenotato per l’indomani e non c’è tempo da perdere.
Siamo senza parole; ringrazio il padrone dell’agenzia abbracciandolo e gli ricordo che non ho una lira in tasca; come faremo per rimborsarlo? Lui mi scrive su di un pezzo di carta il suo numero di conto corrente e la banca presso la quale lo intrattiene, e mi dice che gli potrò spedire i soldi quando arriverò in Italia, ma ora di sbrigarmi che se perdo l’autobus perdo anche l’aereo.
Il viaggio notturno trascorre tra incubi e scossoni; per quanto voglia fare “il duro” – anzi ci sia costretto per non lasciarmi morire a dodicimila chilometri da casa – ho accusato il colpo; quello che mi fa più male è l’aver perduto la mia fedele attrezzatura fotografica, i miei rullini, la mia videocassetta con tutti i momenti spensierati del viaggio; il veder rovinato un viaggio pianificato con tanta fatica e tanto entusiasmo (e tanto denaro…); l’esser stato depredato come un qualunque deficiente colpisce inoltre il mio smisurato orgoglio: eccolo lì, quello che insegna agli altri come si deve viaggiare: per la strada come un barbone che non sa neanche se e quando tornerà a casa; ma stattene a Genova, stupido!
Bene o male riesco a prendere sonno, ed alle prime luci dell’alba l’autobus ci deposita alla stazione centrale di Banjarmasin, dalla quale uno dei soliti trasporti urbani al limite della sopravvivenza ci consente di raggiungere l’aeroporto.
Il primo siparietto si svolge quando l’addetto al check-in ci chiede i passaporti: presento senza batter ciglio la copia della denuncia e la lettera di presentazione del titolare dell’agenzia; il tipo legge per venti minuti, poi scrolla le spalle e ci consegna la carta d’imbarco. Quando l’aereo della Bouraq stacca le ruote dalla pista ed il Borneo sparisce lentamente dietro di noi non riesco a trattenere – il primo dalla notte del furto – un sorriso; è fatta, mi dico, ora a Bali contatto il Console ed in un paio di giorni, con un nuovo passaporto e le copie dei biglietti aerei, si ritorna in Italia; magari – penso ottimista – mi faccio prestare una somma un po’ più alta e ci scoppiamo qualche giorno alla grande sull’Isola degli Dei, tanto per dimenticare.
Oh, quanto mi sbagliavo!
Atterrati a Denpasar, saltiamo su di un bemo e ci facciamo portare in Legian Street, dove sorgono le guest-house più economiche di Bali; presentando l’omnifunzionale denuncia riusciamo ad ottenere ancora un ulteriore sconto sulla stanza, depositiamo i bagagli, facciamo una doccia e cerchiamo il numero di telefono del Consolato Onorario Italiano a Denpasar; risponde la segretaria del Console che ci concede un appuntamento per la mattina dopo presso l’atrio del Bali Beach Hotel a Nusa Dua.
Arriviamo lì, piuttosto sconvolti, ed il console - bello elegante - ci aspetta nella hall di questo albergo “cinque stelle”; ci stringiamo la mano, ci sediamo sui divani di pelle e spieghiamo tutta la nostra storia. Facciamo presente le nostre necessità essenziali, sottolineiamo che non abbiamo intenzione di continuare la nostra vacanza e che tutto quello di cui abbiamo bisogno è di un duplicato del passaporto e di qualche rupia per poter pagare la penale sulla riemissione dei biglietti aerei da parte della filiale locale della Garuda Indonesia; dopodiché partiremo sul primo volo disponibile alla volta di Genova.
Il Console ascolta, con le mani giunte sotto il mento; ogni tanto annuisce o scuote la testa in segno di solidarietà; quando ho terminato la mia esposizione dei fatti socchiude gli occhi, sospira rumorosamente e comincia a parlare. Ci dice che lui è solo il Console Onorario e non ha il potere di rilasciare duplicati dei passaporti; che per ottenerli bisogna andare all’Ambasciata Italiana a Jakarta; che non può anticiparci denaro perché non dispone di un fondo di cassa; che non sa come aiutarci. Un po’ stressato dai difficili giorni trascorsi e dalla situazione, gli chiedo che cosa faccia lì, allora. Mi risponde che si trova a Bali per aiutare i cittadini italiani che abbiano problemi di salute o problemi con la legge tali da rendere consigliabile il loro rimpatrio.
“Non c’è problema – gli rispondo un po’ alterato – se per tornare in Italia devo rapinare una banca me lo dica. Cosa ci vuole: entro nella prima filiale, dò un pugno al cassiere e rubo una mazzetta di rupie, poi vado alla polizia e mi costituisco; a quel punto lei mi rimpatria? Se mi dice di sì vado fuori adesso!”. Lui mi chiede di calmarmi, sospira e tira fuori di tasca cinquanta dollari: tutto quello che è autorizzato ad anticiparmi in via di emergenza. Prima di congedarsi da noi (con evidente sollievo peraltro) ci chiede tutti i nostri dati personali, compreso il numero di conto corrente, “per iniziare le pratiche di richiesta del rimborso di quanto anticipato”.
Mi allontano rapidamente per non picchiarlo, e ci avviamo verso la filiale della Garuda Indonesia, dove dopo una coda infernale la cortese impiegata mi conferma che la riemissione dei biglietti costa U$ 50 per ogni biglietto, e quindi – visto che le ho dato solo cinquanta dollari – di scegliere a quale nominativo deve riemettere il documento di viaggio. Le rispiego tutto, evidenziando la situazione di emergenza, le risbatto sotto il naso la denuncia e – ormai alla frutta – comincio a dirle che se i suoi compaesani fossero onesti io a quest’ora starei sdraiato sotto una palma sulla spiaggia di Kuta, e non in piedi di fronte a lei a mendicare cinquanta fottuti dollari per poter tornare a casa.
In coda dietro di noi si trovano due ragazzi napoletani, che udito l’accaduto mi allungano un verdone da cinquanta e mi dicono di pagare i due biglietti; quando li ringrazio e dico loro di darmi l’indirizzo per rispedirglieli, sorridono e mi dicono di mandare un mazzo di fiori a Maradona. Giuro che l’ho fatto appena tornato in Italia. Rose gialle e gigli bianchi, spedito con Interflora alla sede del Napoli Calcio (per inciso, pagato più di 50 $).
Il primo aereo disponibile per Jakarta – dove ci dovremo fermare almeno mezza giornata per ottenere il duplicato del passaporto dall’Ambasciata – partirà dopo due giorni, il che riporta tragicamente attuale il tema “vitto e alloggio”: nelle nostre tasche rimangono ormai poche migliaia di rupie che non ci consentono neppure di pagare il prossimo pernottamento; informandoci presso le banche veniamo a sapere che il tempo minimo previsto per ricevere un bonifico dall’Italia – ammettendo nessun intoppo burocratico o tecnico – è di sette/otto giorni, quindi anche l’ipotesi di chiedere soldi a casa cade miseramente.
Ed altrettanto miseramente ci troviamo in serata a gironzolare nella zona di Kuta-Legian, piena di splendidi ed odorosi ristorantini, senza poterci permettere neppure un piatto di nasi goreng presso una delle onnipresenti baracchette su ruote; ci guardiamo in faccia e ci chiediamo in silenzio come faremo a sopravvivere altri due o tre giorni (fino cioè al nostro arrivo a Genova) senza mangiare nulla; mia moglie si limita a scrollare le spalle ed a lasciar di nuovo piombare la testa tra le ginocchia (sue…).
Ad un tratto, da un vicino ristorante sentiamo delle voci impegnate in un alterco piuttosto violento; alcune di esse – anche se esprimono concetti in inglese - portano alle nostre orecchie un marcatissimo ed inconfondibile accento genovese. Senza una parola saltiamo in piedi e ci infiliamo nel ristorante, dove vediamo una coppia impegnata a discutere con il proprietario in merito ad una presunta truffa: il suo locale pubblicizzava infatti lunghissimi happy hour (il periodo di tempo in cui le consumazioni hanno prezzo dimezzato) che non rispettava però all’atto dell’emissione del conto, bellamente calcolato a tariffa intera.
Ci intromettiamo con delicatezza e, sedata la rissa, cominciamo a parlare con gli italiani che ci confermano in effetti di essere di Genova e che cosa ci facciamo lì e di dove siamo e blablabla; quando comincio per l’ennesima volta a raccontare la nostra disavventura, dagli sguardi che i due si scambiano credo di capire quello che pensano: ecco altri due tossici che hanno finito i soldi e si sono inventati questa panzana per tirare avanti altri due giorni con i primi creduloni che abboccano alla loro storiella patetica. Per rafforzare il concetto della nostra buona fede, allora, dico anche di aver provato a contattare telefonicamente la banca dove lavoro per chiedere se era possibile ricevere in tempo utile un bonifico; a questo punto la ragazza mi interrompe e mi dice “Lavori in banca a Genova? In quale banca?”; quando le dico il nome dell’istituto di credito dove presto la mia opera si mette a ridere e mi dice “Ah, e non hai mai parlato con l’Ufficio Economato? Perché io lavoro lì da otto anni!”. Cazzo. Dodicimila chilometri per dare una facciata dentro una collega.
A questo punto, ovviamente, la diffidenza si scioglie come neve al sole; scopriamo anche di abitare vicini, di aver lavorato negli stessi uffici in differenti periodi, di frequentare colleghi ed amici comuni… in pratica ci prestano trecento dollari per consentirci di terminare dignitosamente la nostra permanenza in Indonesia.
I due giorni successivi li trascorriamo insieme ai nostri nuovi amici e Salvatori, gironzolando per l’isola con la loro jeep a noleggio; viene quindi il momento della nostra partenza – prima tratta Bali-Jakarta – che ci vede abbandonare con un certo sollievo questo luogo popolato da impiegate senza cuore e da inutili e supponenti Consoli Onorari.
Arriviamo a Jakarta e ci facciamo portare da un taxi presso l’Ambasciata italiana, presso la quale veniamo accolti in un Ufficio piuttosto lussuoso dove attendiamo una buona mezz’ora prima che un incaricato si presenti e ci chieda di raccontargli che cosa ci è successo; finito il racconto, annuisce e ci fa accomodare in un ufficetto dove ci vengono scattate quattro foto tessera uso passaporto (che ci verranno addebitate in ragione di U$ 5!!). Attendiamo ancora un’oretta prima che venga consegnato a ciascuno un foglio di carta scritto in indonesiano ed in italiano, pieno di timbri e con una nostra foto bellamente pinzata nell’apposito spazio. Con questo – ci assicurano all’Ambasciata – è come se viaggiassimo con un passaporto italiano in piena regola; trattasi di un documento riconosciuto in tutto il mondo, da qualsiasi Autorità. L’unico neo è che prima di partire dobbiamo recarci alla Centrale di Polizia di Jakarta per farlo vidimare dall’Ufficio Immigrazione; ma la Centrale è qui dietro l’angolo, possiamo andarci a piedi.
Camminiamo un’oretta sotto il sole a circa 42° di temperatura prima di arrivare al palazzo dove ha sede la Centrale di Polizia, una sorta di castello kafkiano di oltre venti piani nel quale fiumi di persone entrano ed escono senza soluzione di continuità. Entriamo e chiediamo dell’Ufficio Immigrazione; ci chiedono il perché, e rispiego il tutto facendo vedere la solita – ormai consunta – denuncia, il nuovo “passaporto” e i biglietti aerei. Veniamo praticamente spinti dentro un ufficio dove l’impiegato osserva la nostra documentazione e ci chiede dopo un attimo a che ora pensiamo di partire per l’Italia. Rispondo che il volo Jakarta-Francoforte parte alle 18.30; lui guarda l’orologio e scuote la testa, poi alza le spalle, infila un foglio di carta in una macchina da scrivere probabilmente assemblata da Remington in persona, batte un paio di linee, estrae il foglio, lo infila in una busta sulla quale scrive in bella calligrafia “Office 23 – 4th floor”, mi consegna la busta e mi dice “Office tuentitri, fors flor”.
Al quarto piano, fuori dell’Ufficio 23, c’è una discreta coda; me ne sbatto lo sbattibile e passo davanti a tutti. Nessuno protesta. Dentro, una signora corpulenta dietro una scrivania strapiena di carta afferra la busta, la apre, estrae il foglio e lo legge, poi mi chiede di vedere i soliti documenti; annuisce e mi chiede a che ora parte l’aereo per l’Italia. Ascolta la mia risposta sospirando, poi prende un altro foglio di carta, lo infila in una macchina da scrivere che avrebbe fatto passare la precedente per un computer della Nasa, batte anche lei alcune righe, infila il foglio in una busta dove scrive rapidamente “Office 77, 7th floor”. Mi consegna la busta rantolando un “Ofis Sepentisepen. Sepen flù”. Corriamo su per le scale mentre medito tra me e me progetti di carneficina; spalanco la porta dell’Ufficio 77 senza bussare e sbatto la busta e tutti i soliti fottuti documenti bisunti sulla scrivania dell’impiegato attonito.
Questi legge il tutto con attenzione maniacale, poi sorride, estrae da un cassetto un timbro grande come uno stuzzicadenti, lo intinge in un tampone grande come un francobollo e appone sul retro dei nostri “passaporti” un segnetto quasi impercettibile. “Ochei mister hev a nais dei” mi dice, riconsegnandomi il tutto.
Usciamo dal Castello, saltiamo su di un taxi e, promettendo una mancia imperiale, ci facciamo portare di corsa all’aeroporto di Jakarta, Terminal Partenze Internazionali. Al banco del check-in, l’impiegato non riconosce il nostro “passaporto” e minaccia di non farci salire a bordo se non compiliamo una dozzina di moduli scritti in indonesiano entro venti secondi; scrivo le prime cose sensate che mi vengono in mente, copiando parti della lettera del ranger, parti della denuncia e spezzoni della lettera dell’agente di viaggio di Samarinda.
In perfetto orario, l’aereo diretto a Francoforte decolla; attendo il “clac” del carrello che rientra e poi, finalmente, comincio a piangere.
Arrivati in Germania ci rilassiamo un attimo, anche perché ora – per male che vada – possiamo salire su di un treno e farci sbattere fuori dopo qualche fermata per poi saltare sopra un altro e così via, fino ad arrivare comunque in Italia. In caso disperato posso telefonare a mio padre e farmi venire a prendere fin qui. Posso aspettare un bonifico, che impiega non più di 24 ore per arrivare qui dal’Italia. Di nuovo al bancone del check-in il nostro documento non viene riconosciuto valido; meno male che parlo tedesco, e dopo aver raccontato per la tremilionesima volta la nostra Odissea ed aver fatto ridere fino alle lacrime il Direttore della Lufthansa veniamo ammessi sul volo Francoforte-Milano Linate.
Atterriamo finalmente in Italia; sono trascorsi tredici giorni dalla notte del furto; ho perso nove chili, parzialmente la Fede e acquisito un centinaio circa di capelli bianchi, un centimetro di barba incolta e probabilmente qualche pulce; al controllo passaporti veniamo fermati in quanto il documento che presentiamo non viene riconosciuto valido. Ci troviamo così seduti sulle panche di legno fuori del Posto di Polizia aeroportuale, insieme a due extracomunitari che sono stati sorpresi mentre cercavano di salire come clandestini nel vano bagagli di un aereo diretto negli Stati Uniti ed a due coniugi di Torino che hanno “rubato” un bambino in Gabon: si trovavano in visita ad un villaggio quando da una capanna è uscita una donna che ha consegnato loro il bambino in questione (un tenerissimo maschietto di sette/dieci mesi circa) dicendo che gliene erano già morti sei e non voleva che questo seguisse la stessa sorte, pregandoli di portarselo via.
Vi basti sapere che io e mia moglie siamo stati gli ultimi ad andar via, dopo essere stati riconosciuti telefonicamente da mia nonna (ottuagenaria e con chiari sintomi di Alzheimer: alla fine della telefonata ha salutato il Commissario con un “Grazie a lei, signorina”); usciti dalla zona riservata incontriamo i miei genitori. Seduti in macchina sulla via del ritorno, scopro che Roberta tiene ancora stretto tra le mani il cappello conico di bambù colorato che abbiamo comprato fuori della longhouse in Borneo, qualche secolo fa.
Devo averlo ancora in cantina, da qualche parte; l’unico souvenir che non ho mai appeso al muro.
'AGGANCIA' a questa una tua memoria / 'HOOK' to this memory a memory of yours
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